“Come fa un bambino a crescere con il senso e il valore del bene comune, se non lo educhiamo da sempre a questo? Come possiamo appellarci e trovare consenso su un progetto come ‘Italia bene comune’ se i più piccoli non sanno che significato ha parlare di bene comune o di comunità? Soprattutto in una scuola disastrata e distrutta bisogna trovare lo spazio per l’educazione civica e per iniziative che facciano sentire i singoli parte di una comunità”. La recensione di oggi, dedicata alla scuola, ho deciso di aprirla con le parole di Annamaria da Varese, che ovviamente mi ha ricordato la coalizione con la quale ci presentammo alle elezioni, e che ora non c’è più. Per me, per molti altri, era chiaro cos’era il bene comune intorno al quale era costruita la nostra proposta politica. Pensavamo fosse così per tutti i cittadini italiani. Non lo era.
Sulla scuola e sull’istruzione mi sono arrivati diversi contributi, e cercherò di tenerli assieme nel modo migliore, partendo dalla constatazione che “la mozione di Civati — ci racconta Andrea Ranieri, che si è occupato della stesura di questi passaggi — non è una serie di ricette, ma ha come compito di sollecitare una discussione vera sul merito, una mobilitazione cognitiva, per dirla con Barca”. E, stando ai contributi ricevuti, direi che ci si è riusciti, in modo quasi spontaneo, come dimostrano le critiche — assolutamente costruttive — di Claudio (Cremaschi) da Bergamo, secondo il quale dobbiamo avere “il coraggio o la consapevolezza della necessità di ribaltare una scuola nata 100 anni fa, e tale rimasta nelle strutture, nei riti, nei contenuti, nei tempi […] Scuola che ormai da anni osserva sconfortata il richiudersi della sinistra su posizioni difensive, mentre ci deve essere un’idea forte, da vera ‘rivoluzione culturale’. Unita alla capacità di spiegare come si fa, con quali risorse”. Una riforma della scuola, se vuole essere radicale, adatta al mondo in cui viviamo e ai cambiamenti repentini che lo attraversano, se vuole avere prospettive di lungo periodo, deve necessariamente coinvolgere gli attori principali: “gli insegnanti, oggi sempre più frustrati e demotivati. E non si fa una volta per tutte, al ministero. La risposta è una vera, reale, radicale autonomia delle istituzioni scolastiche, che ricevono un budget (di soldi e personale) e gestiscono e adattano i metodi, gli strumenti e i tempi ai bisogni dei singoli alunni, personalizzando i percorsi, abbandonando la scuola rigida e tayloristica delle classi d’età, dei programmi, degli orari, dei calendari, delle lezioni frontali. Scuole aperte tutto il giorno e tutto l’anno, per gli studenti e per la comunità locale. A livello centrale deve restare solo il compito di indirizzo, e di valutazione”. Andrea Ranieri, come vuole la mobilitazione cognitiva, pur concordando sulla necessità di autonomia, pone “qualche dubbio sullo spostare l’insieme delle politiche sugli organici delle singole scuole. Penso, come del resto in molti paesi europei, ad un ruolo forte dei Comuni, da soli o consorziati, dentro un rinnovato federalismo scolastico. Superato l’incubo del leghismo, sta probabilmente a noi riprendere in mano la battaglia contro il centralismo e la burocrazia ministeriale”.
Questo nuovo protagonismo deve necessariamente essere accompagnato da una valorizzazione degli insegnanti: “servono i migliori insegnanti possibili, formati, selezionati, valutati, giovani e motivati — prosegue Claudio -. Con una carriera professionale, con stipendi adeguati. Che non cambiano scuola ad ogni nuovo anno scolastico. Non dei missionari, ma veri professionisti della formazione. Dobbiamo disegnare una professione che non si offra come un ripiego”. Fa da eco Gabriele da Trieste, che pone l’accento sul sistema di reclutamento, “da effettuarsi esclusivamente mediante procedure concorsuali univoche, regolari e ‘invarianti’ per un numero congruo di anni. L’obiettivo deve essere l’assunzione di personale qualificato e motivato, nonché quello di estinguere in un periodo relativamente breve l’annoso problema del precariato”. Che sulla stabilizzazione si giochi una partita fondamentale ne è convinto anche Andrea Ranieri, che a questa tiene assieme l’autonomia, “uscendo da una rivendicazione puramente lavoristica, per collegare la stabilità dell’insegnamento nel tempo alla costruzione di una cultura organizzativa della scuola dell’autonomia, che è possibile solo con la stabilità”.
In questo contesto — aggiunge Hamilton da Torino — bisogna permettere agli aspiranti insegnanti di “muoversi con una maggiore flessibilità per quanto riguarda i loro percorsi formativi. Ora, un neo-laureato che vuole diventare insegnante di Lettere non può accedere ai concorsi se non si è laureato in una facoltà di Lettere. Ci sono alcuni casi in cui corsi di laurea che in tutta Italia sono sotto Lettere, sono sotto altre facoltà, questo per colpa di convenienze politiche e malcostume baronale. Ad esempio, prima della riforma Gelmini, il DAMS di Torino non era parte della facoltà di Lettere, come avviene a Bologna e Roma, ma di Scienze della Formazione. Questo rende i laureati DAMS di Torino ineleggibili per qualunque classe di insegnamento che non sia in relazione al cinema e ai nuovi media a differenza dei laureati DAMS di Roma o Bologna”.
Altro e fondamentale versante sul quale intervenire è quello delle strutture e dell’organizzazione scolastica, dei tempi e degli spazi, perché — prosegue Claudio — “non basta la messa in sicurezza: oggi gli edifici scolastici sono pensati coerentemente all’idea tayloristica della scuola. Aule e corridoi, qualche laboratorio, dove si è fortunati, ma in genere anche questo organizzato in modo gerarchico, cattedra e banchi. La struttura delle scuole deve cambiare radicalmente, seguendo i modelli europei più avanzati. Spazi flessibili, luoghi di studio individuale e di gruppo per studenti e docenti, mense, laboratori, luoghi di incontro”.
Al contrario, ci troviamo una “scuola più povera e più rigida — attacca Andrea Ranieri — a causa dei tagli massicci degli ultimi anni che non hanno ridotti né gli sprechi né le inefficienze”.
Partendo dal presupposto che non sarebbe affatto male “aumentare di qualche decimo di punto di PIL la spesa per la scuola, portandola in linea con i paesi europei”, in tempi di crescita zero, di impegni europei e di Patti di stabilità, le strade da seguire sono due. Sulla prima, squisitamente politica, insiste Gabriele da Trieste, chiedendo che tali investimenti siano esclusi dai limiti di spesa imposti dai trattati europei. La seconda, prospettata da Claudio, è “sopperire con l’intelligenza. E riorganizzare la scuola in modo da recuperare e ri-orientare le risorse che oggi vi si spendono in modo sbagliato. Non si tratta di ritocchi, ma di interventi radicali, che già di per sé facilitano il miglioramento del processo di insegnamento /apprendimento, e che liberano ingentissime risorse (umane e finanziarie) da reinvestire nel sistema di istruzione”. Gli interventi proposti da Claudio colpiscono per la loro radicalità e, condivisibili o meno, aprono finalmente il dibattito, la “mobilitazione cognitiva” da cui siamo partiti, e che dovrebbe coinvolgere tutti gli iscritti e gli elettori del Partito Democratico. Claudio propone la “riduzione di un anno del percorso scolastico primario/secondario (due cicli soli, con unificazione della scuola primaria e media di primo grado) consentendo l’uscita dalla scuola secondaria a 18 anni (come in moltissimi paesi europei) e dall’Università a 23”. E poi “riduzione delle ore di lezione curricolari. Che non vuol dire ridurre il tempo scuola. Ma prendere atto che i processi di apprendimento non avvengono (più?) con il classico sistema della lezione frontale e con il rituale della spiegazione, studio, interrogazione: più spazio per studio assistito, tutoraggio, gruppi di ricerca, creatività autonoma. Ciò significa che a parità di insegnanti cambia il rapporto docente/studenti, ma non tanto e non solo in termini numerici, riferito al numero di studenti per classe. Perché anche la classe, sempre uguale in ogni ora e in ogni materia, è un’idea vetusta da smontare”. Possibilità di “personalizzare i curricoli, come hanno fatto in Finlandia, consentendo agli studenti di scegliere le materie e i corsi più congeniali, senza costringere alla ripetenza in tutte le discipline uno studente che non riesce in una sola, e non promuovendolo in quella disciplina solo perché riesce in tutte le altre”, per combattere l’abbandono scolastico che causa costi sociali enormi. Infine, ed è questo probabilmente il nodo, una vera e propria “ristrutturazione dei tempi della scuola, che al momento sono tempi stretti, tante ore concentrate in una mattina, stipate in una settimana, compresse in nove mesi. Dilatiamo il calendario scolastico da 32/33 a 39/40 settimane, come in molti paesi europei, distribuendo di conseguenza l’orario delle lezioni. Scuola più leggera, sabato libero, meno ore di lezione settimanale (ma non meno tempo scuola, che è un’altra cosa), facilità di articolare i percorsi in modo flessibile, su quadrimestri o bimestri”.
Non si tratta solamente di approccio scientifico, come ci racconta Cristiana da Varese, ma anche di semplice buon senso di chi ha visto la scuola cambiare, e ora la vive insieme a una nuova generazione di studenti. “La lunga chiusura estiva delle scuole — scrive Cristiana — è un problema per la maggioranza delle famiglie italiane dove ormai sia le mamme che i papà lavorano. Non tutti, se le ferie non ci sono, possono contare sull’aiuto di nonne e zie per “gestire” i propri figli. Come non tutti, soprattutto se si è una monofamiglia, possono permettersi di pagare un campo estivo dietro l’altro mettendo a tacere sensi di colpa immensi, timori (chi saranno gli educatori?) e amarezze. Sarebbe bello che la politica cominciasse a riflettere sul fatto che l’Italia non è più quella degli anni Cinquanta, con le mamme a casa e i papà al lavoro. Oggi è tutto molto diverso e i genitori hanno bisogno di una mano. Potrebbe essere una soluzione ripensare i mesi di scuola, la didattica e le ore di svago, assumere i tanti docenti precari e fare degli istituti scolastici luoghi di riferimento cittadini quasi sempre aperti? Certo sarebbe una rivoluzione sociale… Penso a un’apertura prolungata della scuola che si frequenta, magari con lezioni diverse, anche un po’ strane, perché per i genitori è rassicurante sapere dove è il proprio figlio (in un luogo conosciuto e sicuro) e con chi (con qualcuno dei suoi insegnanti a rotazione e con altri giovani e nuovi, ma selezionati). Non so proprio immaginare quanto potrebbe costare una mutazione tanto profonda, ma nel contempo immagino che possa aiutare a far girare più lavoro: quello a scuola, e quello delle mamme, che spesso per stare a casa rinunciano al loro”.