[vc_row][vc_column][vc_column_text]di Claudia Moreni e Cristina Cazzulo
Quest’anno ci aspetta un Primo Maggio insolito, come insolite sono state le celebrazioni di alcune giornate significative dall’inizio del 2020, siano state esse laiche, come la giornata internazionale della donna (8 Marzo) o la festa della liberazione (25 Aprile), o religiose (Pasqua e Lunedì dell’Angelo): un Primo Maggio di piazze virtuali.
Un Primo Maggio in cui, per la prima volta, chi lavora in settori come la grande distribuzione (centri commerciali o ipermercati), il turismo o la cultura (cinema, teatri, ristoranti…), sarà a casa, mentre ci saranno persone, che non ringrazieremo mai abbastanza, e che lavorano in ambito sanitario, nella protezione civile, nelle forze dell’ordine, eccetera, che in tempi normali e turni permettendo avrebbero potuto festeggiare la giornata a casa ma che proprio per quest’emergenza saranno al lavoro come non hanno smesso di fare da oltre due mesi a questa parte, dimenticando ferie e riposi.
Sarà soprattutto un Primo Maggio che, ancora di più degli anni scorsi, metterà in risalto tutte le contraddizioni dell’attuale sistema economico e produttivo, con la sete di diritti che ancora troppe persone che lavorano continuano ad avere.
Lo stop dovuto alla pandemia ha messo ulteriormente in luce le differenze tra chi fa attività lavorative differenti, ma anche fra chi ha sempre lavorato spalla a spalla (altro che metro di distanza!) e si è sempre considerato collega di nome, ma che nella realtà vive diritti differenti. Durante il lockdown, infatti, nella stessa azienda coloro che godono di un contratto a tempo indeterminato hanno potuto usufruire di ferie, cassa integrazione in deroga, di permessi parentali o, se fortunati o fortunate, hanno lavorato in smartworking (ma anche in questo caso sarebbe opportuno differenziare tra datori di lavoro “illuminati” che quindi forniscono i dispositivi, rispettano i tempi di distacco e magari aiutano nel pagamento delle utenze per il collegamento internet e quelli più arretrati che considerano il tempo di lavoro a casa come sottratto all’azienda).
Coloro che lavorano invece con un contratto a somministrazione hanno immediatamente subito le conseguenze delle decisioni dell’azienda che li o le utilizza e che per le APL (Agenzie Per il Lavoro) presso cui risultano assunti o assunte, rappresentano il cliente da accontentare.
Chi aveva un contratto di tirocinio o di stage, in base al principio per cui di contratto di formazione e non di lavoro si tratta, è ora a casa senza retribuzione e senza poter accedere a nessun tipo di contributo e poco importa che nella maggior parte delle aziende questi contratti vengano nella quasi normalità impiegati per sopperire alle mancanze di personale: troppi struzzi hanno evitato di vedere la deriva cui si andava incontro.
Chi svolge un lavoro di cura a domicilio (come le badanti) ha continuato ad assistere anziani, spesso senza alcun presidio di protezione, né per loro, né per chi assistevano: doveva pensarci la famiglia? Dovevano pensarci da sole/i? Non ci ha pensato nessuno e hanno continuato a fare viaggi della speranza su autobus semivuoti e a fare interminabili code nei negozi per la spesa, rimanendo a contatto con tutto e di tutti, rischiando ogni giorno la loro salute e quella di chi è più fragile.
Un’altra voce di questo elenco è rappresentata dalle condizioni di lavoro dei e delle riders, che hanno continuato ad effettuare consegne di cibo da asporto, bevande e, in molti casi, anche la spesa al domicilio di chi rimaneva a casa; anche per loro e solo dopo numerose proteste sono arrivati, in misura insufficiente, i dispositivi di protezione individuale e i pochi euro guadagnati per ciascuna consegna non bastano per dotarsene individualmente. Non sono poi stati pochi i casi di riders multati dalle forze dell’ordine perché circolanti nelle strade o per “assembramento” mentre aspettavano fuori dai ristoranti il cibo da consegnare e questo, parafrasando un noto detto, è il danno oltre la beffa.
L’elenco potrebbe continuare per pagine e pagine: tutte e tutti abbiamo parenti o conoscenti che hanno capito in questi giorni sulla propria pelle a cosa hanno dovuto rinunciare in nome di una retribuzione spesso inadeguata, ma necessaria. Ecco perché pensiamo che questo Primo Maggio ci debba servire per continuare la vecchia lotta, perché è stato chiaro che da questa quarantena ne usciranno, acciaccate ma non distrutte, dal punto di vista lavorativo ed economico, solo quelle persone che hanno potuto far valere diritti contrattuali solidi.
Sarà sempre la giornata in cui si cercherà di porre un argine all’erosione dei diritti, alle richieste di ridimensionamento in nome di una ripresa che dal 4 Maggio sarà lo slogan per i giorni a venire, ma dovrà essere per tutti, non solo per chi l’ha fatto anche in questi anni, l’inizio di una nuova lotta che chieda diritti e dignità per chi non li ha, che crei per ogni tipologia di lavoro, soprattutto dei “nuovi lavori” o di quelli invisibili, quella dignità che permetta di affrontare tutte le emergenze che il futuro ci riserva, che siano create da un virus, dalla natura o, e sono le peggiori, dalla natura umana e dalla sua avidità.
Se pensiamo che dal 4 Maggio tutto progressivamente ritornerà come prima dell’emergenza, vorrà dire allora che da questo stop non abbiamo imparato niente.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]