di Alessandro Tinti
Le guerre dimenticate riemergono sulla spiaggia di Steccato di Cutro, nei corpi esanimi di chi scappava dall’Afghanistan, dalla Siria, dall’Iran, dalla Somalia. Paesi abbandonati a loro stessi, come corpi lasciati andare alla deriva. Da quelle guerre dimenticate avremmo dovuto trarre delle lezioni. Avremmo dovuto capire che le guerre moderne hanno un inizio ma spesso non una fine, che la pace non si conquista militarmente, che le armi non riparano l’ingiustizia subita ma la moltiplicano soltanto. Le tante crisi irrisolte cui la comunità internazionale non ha saputo o voluto dare risposta hanno smantellato, pezzo a pezzo, il già imperfetto sistema di sicurezza della Carta delle Nazioni Unite e incrinato la fiducia nella diplomazia e nel diritto internazionale.
Il conflitto russo-ucraino è una nuova voragine, ancor più temibile perché epicentro di un conflitto che può innescare uno scontro globale e nucleare. È una guerra europea rispetto alla quale l’Unione Europea non è ancora riuscita a dare una risposta comune per aprire il negoziato. Perché le guerre finiscono solo quando ci si siede attorno ad un tavolo e si inizia a discutere. L’assenza di un orizzonte europeo ha invece alimentato i particolarismi ed una retorica bellicista che ogni giorno di più allontana la pace. Ci aveva messo in guardia Altiero Spinelli, dalla cella in cui il regime fascista lo aveva rinchiuso: con il risorgere dei nazionalismi i popoli sono convertiti in eserciti, gli stati si affidano alla sola forza delle armi, le conquiste della democrazia diventano nulla di fronte alla preparazione di una nuova guerra.
Faremmo bene a rileggere il Manifesto di Ventotene. Capiremmo che in momenti così precari e incerti dobbiamo affidarci ai principi fondamentali della Costituzione repubblicana, perché questa fu concepita dopo il più atroce dei conflitti affinché ciò non si verificasse ancora: il ripudio alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, la promozione della pace e della giustizia, il primato del diritto sulla forza. Sono principi che assegnano la responsabilità di vincere la pace. E indicano anche gli strumenti per farlo.
In questi mesi il dibattito sulla politica estera e di difesa ha invece subito un arretramento spaventoso, tanto da trasfigurare la pace come un disvalore e l’appello alla diplomazia come un atto di complicità con l’invasore. Si è affermata una narrativa bellicista che non promette alcuna soluzione se non il vicolo cieco delle armi. L’alta politica, quella che dovrebbe aver cura della sicurezza nazionale e internazionale, è totalmente assente.
Dopo un anno di combattimenti la mancanza di una linea diplomatica per imporre il cessate il fuoco è intrisa di cattiva coscienza. Invece che una conferenza di pace, il Ministro degli Esteri Tajani ha annunciato che il Governo convocherà a Roma una grande conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina, “con il contributo delle imprese italiane”. Il Ministro della Difesa Crosetto ha puntato i piedi in Parlamento sull’urgenza di portare al 2% del PIL le spese militari, che già hanno visto un incremento di oltre 800 milioni di euro nell’ultima Legge di Bilancio secondo la stima dell’Osservatorio Mil€x. Il Ministro Crosetto ha pure istituito un comitato per la promozione della cultura della difesa, arruolando editorialisti, docenti e anche esponenti dell’industria bellica che a ben vedere si apprestano ad ammorbidire l’opinione pubblica per accettare ulteriori rialzi. Tre indizi fanno una prova. Del resto, le guerre sono sempre state anche grandi affari e grandi pretesti per servire interessi di parte. Il conflitto in Ucraina non fa eccezione.
Per questa ragione abbiamo urgentemente bisogno di promuovere una cultura della pace che affronti la politica estera e di difesa con argomenti e sensibilità diverse, che sia aperta al contributo essenziale della società civile e che recuperi la centralità del diritto internazionale e della solidarietà tra i popoli. A Roma furono firmati i trattati istitutivi della Comunità europea e lo statuto della Corte penale internazionale. È un’eredità da non disperdere che ci impegna verso un’etica non bellicista della politica internazionale, ancor più in questa fase critica di indebolimento del multilateralismo.
Molto può essere fatto. Lo dimostrano, ad esempio, le tante realtà della società civile afferenti alla Rete Italiana Pace e Disarmo che instancabilmente costruiscono ponti sopra le macerie e che sono impegnate in una molteplicità di fronti, dal disarmo nucleare ai progetti di difesa civile non armata e nonviolenta. Sono voci e competenze che devono essere ascoltate per saper porre le giuste domande.
Ad esempio, è davvero necessario incrementare la spesa militare quando i 26,5 miliardi di euro annui stanziati per il bilancio della difesa già ci collocano all’undicesima posizione mondiale? A fronte di un sistema sanitario nazionale sottofinanziato, una spesa sociale in calo costante, la più bassa percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione in Europa e l’indifferibile riconversione ecologica dei sistemi produttivi, ci sembra che le priorità di spesa debbano essere altre e che gli stessi concetti di sicurezza e interesse nazionale debbano essere intesi anche, se non principalmente, nelle loro dimensioni non militari. Dopo aver pagato il caro prezzo di una pandemia globale e con gli effetti del cambiamento climatico sotto gli occhi, dovrebbe essere una considerazione banale.
La guerra in Ucraina e le tante altre guerre dimenticate nel mondo, in cui si combatte con armi italiane (come in Yemen) o di cui abbiamo contribuito a creare le condizioni (come in Afghanistan), ci chiamano ad essere obiettori di coscienza ed esercitare la più grande delle responsabilità. Lo dobbiamo a noi stessi. Lo dobbiamo a chi dalla guerra scappava e nel mare nostro ha perso la vita.