La Commissione europea ha così deliberato il testo di una nuova direttiva che promette di cambiare radicalmente il modello della gig economy, l’ubérisation o uberizzazione, ossia l’adozione universale del modello Uber dell’erosione del diritto del lavoro.
La direttiva farà discutere. E a lungo. I suoi effetti non saranno immediati e si prospettano tortuosi percorsi attuativi nei vari paesi europei. Perché nei fatti ogni direttiva può lasciare un margine più o meno ampio nella formazione degli atti di recepimento da parte dei parlamenti nazionali ed è là che troveremo in azione la macchina lobbistica delle multinazionali del settore.
I punti chiave della proposta sono i seguenti.
Il primo, il più immediato: la direttiva impone agli stati membri di adottare procedure appropriate per verificare e garantire la corretta determinazione della condizione lavorativa delle persone che svolgono lavori di piattaforma. Ciò dovrebbe basarsi sul principio del primato della condizione fattuale, ossia tale determinazione dovrebbe essere guidata principalmente dai fatti, dall’effettivo svolgimento del lavoro e non da come il rapporto è definito nel contratto.
È quindi formulato il principio della presunzione del rapporto di lavoro subordinato laddove la piattaforma di lavoro digitale è in grado di controllare determinati elementi della prestazione di lavoro e, in virtù di ciò, gli Stati membri devono stabilire un quadro per garantire che la presunzione legale si applichi a tutti i procedimenti amministrativi e giudiziari pertinenti e che anche le autorità di controllo, gli ispettorati del lavoro e gli organismi di protezione sociale, possano fare affidamento su tale criterio. L’onere della prova dell’assenza di un rapporto di lavoro subordinato spetterà all’impresa titolare della piattaforma digitale. E perché sia individuato in modo chiaro e ineludibile un rapporto di lavoro subordinato devono sussistere almeno due delle seguenti condizioni:
- il committente determina effettivamente o è in grado di fissare limiti massimi per il livello di remunerazione;
- il committente esige dal soggetto che esegue il lavoro sulla piattaforma il rispetto di specifiche regole vincolanti per quanto riguarda l’aspetto, il comportamento nei confronti del destinatario del servizio o l’esecuzione del lavoro;
- il committente vigila sull’esecuzione del lavoro o verifica la qualità dei risultati del lavoro anche per via elettronica;
- il committente è in grado di limitare effettivamente la libertà dei lavoratori, anche tramite sanzioni, di organizzare il proprio lavoro, in particolare limita la discrezionalità nella scelta dell’orario di lavoro o dei periodi di assenza, nella scelta se accettare o meno ulteriori incarichi o se avvalersi di subappaltatori o sostituti;
- il committente è in grado di limitare efficacemente la possibilità per i lavoratori di crearsi una base di clienti o di eseguire lavori per terzi.
Resta da capire come i cinque punti potranno integrarsi con il corpus normativo e giudiziale che ha perimetrato la presunzione del rapporto di lavoro subordinato in Italia, in particolare con gli artt. 2094 e 2104 del Codice civile laddove sono individuati gli indici di subordinazione e il potere direttivo del datore di lavoro. Come altresì detto nel caso dei rider, le prestazioni lavorative sono erogate in seguito a specifici ordini regolati e impartiti tramite l’applicazione. E sempre per il tramite di essa, viene esercitato il potere di controllo rispetto alla prestazione erogata.
La direttiva intende tuttavia porre dei limiti alla facoltà dei committenti / datori di lavoro di esercitare tale controllo attraverso gli algoritmi che sottendono alle applicazioni. È stabilito che i committenti / datori di lavoro debbano informare i lavoratori della piattaforma sull’uso e sulle caratteristiche chiave dei sistemi decisionali automatizzati (Automated Decision Making systems, ADM) utilizzati per prendere o supportare decisioni che influiscono in modo significativo sulle condizioni di lavoro dei lavoratori della piattaforma medesima. Le piattaforme di lavoro digitali non dovrebbero trattare alcun dato personale relativo ai lavoratori della piattaforma che non sia intrinsecamente connesso e strettamente necessario per l’esecuzione del contratto (conversazioni private, dati sullo status di salute ecc.) e dovranno inoltre valutare tutti i rischi che gli ADM comportano per la sicurezza e la salute dei lavoratori, al fine di garantire che tali sistemi non esercitino in alcun modo pressioni indebite sui di essi, o mettano a rischio la loro salute fisica e mentale. Deve essere disposta una sorveglianza umana su tali sistemi. I lavoratori hanno il diritto di ottenere spiegazioni circa gli esiti di un sistema ADM che influiscono in modo significativo sulle loro condizioni di lavoro. Le piattaforme devono dare risposte scritte alle decisioni di sospendere gli account dei lavoratori.
Ci saremmo aspettati di leggere, a questo punto, l’attribuzione ai lavoratori di un potere di messa in discussione non solo degli esiti di un sistema ADM ma anche dei criteri base che lo sottendono, in un’ottica di piena trasparenza — laddove tecnicamente possibile — circa il loro funzionamento. La direttiva si limita però a stabilire forme di consultazione dei rappresentanti dei lavoratori, o dei lavoratori stessi, nel caso in cui le imprese intendessero introdurre nuovi sistemi di monitoraggio o sistemi decisionali automatizzati, o apportare modifiche sostanziali a quei sistemi, con lo scopo di promuovere il dialogo sociale sulla gestione algoritmica. Un po’ poco, forse. Si tratta di un embrione della contrattazione collettiva digitale? È troppo presto per dirlo ma dovremmo cominciare a reclamare questo diritto.
Nel complesso, la direttiva è un concreto passo in avanti. Dobbiamo consolidare i suoi contenuti, traducendoli in una rivendicazione chiara e netta dei diritti dei lavoratori al tempo del lavoro digitale.