Riceviamo da Paolo di Como questo contributo sugli enti locali e le Province. Quello che è sicuro è che c’è bisogno di un’ulteriore riflessione su questo tema così delicato.
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L’idea dell’eliminazione delle Province, dell’annichilimento di un intero ordine di enti locali è intellettualmente affascinante. Si tira una riga su un intero strato di enti e si pensa che spariscano costi e burocrazia. In realtà l’operazione apparentemente semplice rischia di essere un disastro: il mondo è complesso e il sistema delle autonomie locali necessita di una “governance” chiara.
Le Province gestiscono “funzioni di area vasta”, ossia quell’insieme di competenze per cui i comuni non sono in grado di agire efficacemente e le regioni sono troppo lontane per farlo. Delle due l’una: o queste funzioni servono e allora è necessario un ente democraticamente eletto che se ne prenda carico, oppure non servono e in questo caso è inutile creare pastrocchi come i consorzi di comuni per gestirle.
Igiene democratica. Sì perché il nostro paese ha ratificato la “Carta europea delle autonomie locali”, per cui se esistono enti locali con funzioni proprie devono essere di tipo elettivo. In questo modo esiste almeno il controllo democratico ogni 5 anni: se invece diventano opachi uffici pieni di nominati nessuno sarà mai in grado di controllarli. Eliminare gli organi elettivi, come vuol fare il governo, è confondere i costi della politica con i costi della democrazia, per fare un po’ di demagogia potremmo dire. Tanto per essere chiari gli enti di area vasta esistono in tutti i grandi paesi europei.
La costituzionalità. Ci sono dei problemi di costituzionalità nell’operazione “cancellazione”: secondo prof. Daniele Trabucco dell’Università di Padova una legge costituzionale che dovesse semplicemente togliere la parola “Province” dalla costituzione sarebbe incostituzionale poiché l’Art 5 recita: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”: promuovere è incompatibile con abolire. Per non parlare del fatto che abbiamo dei trattati internazionali per cui alcune Province sono obbligatorie (Trento e Bolzano): non si capisce quindi come sarebbe possibile una disparità così forte tra diverse aree del paese. Infine non si cambia assetto del paese in tempi di emergenza: l’architettura istituzionale merita i suoi tempi prima di essere modificata.
Il fattore sociologico. “La potenziale cancellazione dell’identità provinciale (quella che ancora oggi fa dire a un viterbese di essere prima viterbese e poi laziale, o cittadino del Centro Italia) è un disinvestimento molto pericoloso in una società la cui crisi antropologica si basa essenzialmente sull’esplosione di un individualismo che si gloria di vivere senza appartenenze.” [Giuseppe De Rita] Questo anche perché si tratta dell’istituto più antico dello Stato italiano: già le province esistevano negli stati preunitari, per esempio dal 1859 nel Regno di Sardegna.
Ma si risparmia? Non è affatto sicuro che un’eventuale eliminazione porti dei risparmi, anzi. Secondo l’UPI l’eventuale riforma aumenterà di 2 miliardi la spesa pubblica a causa di alcuni meccanismi come la moltiplicazione dei centri di spesa che passerebbero da 107 a 1327: da 1 a 14,4 in media per Provincia. Non sarà più possibile quindi fare volume nei confronti del mercato per ottenere prezzi più bassi, ad esempio per spese di riscaldamento delle scuole. Secondo Giuseppe Bortolussi (CGIA Mestre): «L’abolizione a tutti i costi delle Province significa voler creare un capro espiatorio rispetto ad una cattiva gestione della cosa pubblica. Da un nostro studio, risulta che il risparmio sarebbe di 500 milioni su 12/13 miliardi di euro, che ci sembra poco». Analizzando le spese di tutte le istituzioni locali la Bocconi certifica che nel totale della spesa corrente quella delle province rappresenta il 4,5% contro il 72,7% delle regioni e il 22,8% dei comuni. “Suona un filo strano – secondo il Prof. Roberto Zucchetti – che ci si concentri sulla parte più piccola e che non ci si occupi della fetta maggiore”. Persino la Corte di conti boccia il DDL: basse possibilità di risparmio per gli enti, una volta che il disegno di legge dovesse entrare in vigore a tutti gli effetti, e rischio di confusione amministrativa nell’indefinito periodo di transizione. Il passaggio di funzioni da province ad altri enti avrebbe un impatto nullo sulle casse dello Stato. In realtà, scrive la Corte dei conti, tale assunto “appare però tutto da dimostrare nella sua piena sostenibilità”. Oltretutto se “la predicata transitorietà dovesse dilatarsi eccessivamente o addirittura radicarsi in attesa di nuove iniziative si perpetuerebbe una situazione di confusione ordinamentale certamente produttiva di inefficienze”.
La riforma non funziona. Il DDL “Delirio” avrebbe l’obiettivo di svuotare di competenze l’ente, cancellando inoltre gli organi elettivi: In realtà frastaglia e polverizza le funzioni oggi gestite da 107 enti tra 8100 comuni, 370 unioni di comuni, 20 regioni, 10 città metropolitane e le restanti 97 province svuotate, con un intreccio incomprensibile di deleghe reciproche e di assetti variabili, tale per cui nessun cittadino, nessuna impresa capirà mai più chi è competente a fare cosa. Già perché il livello “eliminato” non viene cancellato davvero ma viene “occupato” dagli altri enti esistenti ansiosi di accaparrarsi le competenze. Infatti l’unico tentativo in corso di eliminare le Province, in Sicilia, ha portato fino ad ora il risultato di eliminare 9 enti per farne rinascere 35 sotto forma di consorzi di comuni: proprio un bel modello di risparmio e di razionalizzazione. Oltretutto ci sono evidenti questioni di legittimità Costituzionale su cui il DDL andrà inevitabilmente a cozzare.
Il fallimento passato. La strada dei consorzi di comuni del resto è già stata battuta: i Comprensori furono proposti in Piemonte (LR 41/75), Emilia Romagna (LR 12/75), Lombardia (LR 52/75), Umbria (LR 40/75), Veneto (LR 80/75), Lazio (LR 71/75), Provincia autonoma di Bolzano (LR 62/75) e Sardegna (LR 33/75). Fallirono miseramente un po’ ovunque: perché reiterare ancora i carrozzoni con elezione indiretta (cioè privi della legittimazione democratica popolare)? Perché reiterare qualcosa che non ha funzionato ed anzi ha visto un’esplosione degli enti? [Luca Beccaria]
Un sistema equilibrato. Il fatto è che un sistema, formato da attori pubblici in questo caso, funziona dal momento in cui gli enti in gioco sono sufficientemente forti per evitare di essere annichiliti nel confronto con gli altri. Il DDL “Delirio” va invece in direzione opposta, svuotando le province e rafforzando le città capoluogo che diventano potentissime “Aree metropolitane”. Questa cosa l’hanno capita a destra ed è incredibile che non si capisca a sinistra, infatti Guido Podestà ha dichiarato: “Se le Province non contano più comanderanno i sindaci dei comuni capoluoghi”. Gli unici ad avere voce in capitolo nel sistema delle autonomie saranno quindi i governatori delle regioni e i sindaci delle città metropolitane (che sono lievitate a 18: non ne esistono altrettante in tutta Europa). Gli altri enti saranno robetta, senza potere alcuno di incidere se non a livello locale. È un mutamento totalmente antidemocratico del sistema delle autonomie locali: avere sul territorio il classico terzetto Sindaco del capoluogo, Presidente della Provincia e Presidente della Camera di Commercio quando si tratta di portare avanti un qualsiasi progetto di sviluppo per la comunità è fondamentale. Non riuscendo a fare massa critica, questi territori saranno penalizzati nella capacita di attrarre investimenti pubblici o privati, necessari per lo sviluppo, accrescendo ulteriormente il divario tra zone più popolate e meno popolate che verranno quindi marginalizzate, alimentando nuovamente l’esodo verso le aree metropolitane dove i servizi saranno sempre più avanzati.
Perché servono: esempi. Portare a casa 11 milioni di fondi europei per restaurare diversi beni culturali e ambientali sul territorio (impossibile per i semplici consorzi di comuni). Difendere una valle assediata dalle captazioni lungo i propri fiumi (mini impianti idroelettrici) perché in Regione non sanno nemmeno dove sia quella valle. Non permettere la costruzione di un’autostrada quando ne è in costruzione una parallela a pochi km di distanza. Etc.
Appelli e contrarietà. Proprio per sottolineare tutte queste storture è uscito un appello di 44 costituzionalisti (tra cui Valerio Onida): “Non si possono svuotare di funzioni enti costituzionalmente previsti e costitutivi della Repubblica né eliminare la diretta responsabilità politica dei loro organi di governo nei confronti dei cittadini, trasformando surrettiziamente la Provincia in un ente associativo tra i Comuni, mentre le funzioni da svolgere non sono comunali. Si cerchi di tracciare una linea di riforma delle autonomie locali condivisa ed efficace, con un approccio coerente e di sistema, senza strappi, senza operazioni di pura immagine, destinate a produrre danni profondi e duraturi sulla nostra democrazia locale”. Anche i sindaci hanno capito che non conviene. Il 65% dei sindaci dei piccoli Comuni non considera la riforma delle Province una priorità, il 64% sa che non porterà alcun risparmio, il 63% pensa che farà indebolire i territori. Se dunque un 61 % la vede come una opportunità di razionalizzare competenze, quindi sa bene che c’è bisogno di razionalizzare, non di eliminare, il 57% ha capito che perderà un riferimento e il 63% è molto più preoccupato dalla mancanza di risorse che dalle riforme. La maggioranza dei sindaci poi è cosciente di non avere personale (53%) e competenze (34%) idonee per svolgere le funzioni delle province, oltre ad essere questo un peso in più di cui dovrà sobbarcarsi (28%). Persino le regioni hanno dato parere negativo al DDL “Delirio” in Conferenza delle regioni. Infine pure per i cittadini non sembra essere una priorità: secondo uno studio ISPO il 72% dei cittadini si sente orgoglioso della propria provincia e solo il 4% ritiene prioritario abolirle.
Cosa fare allora? Rimangono diverse cose da fare: la prima è accorpare, per consolidare gli enti esistenti. Questo vale per le province che potrebbero tornare ad essere le 76 del 1924 ma vale anche per qualche regione e soprattutto per gli 8mila comuni che dovrebbero essere avviati verso un programma di incentivi per la fusione e disincentivi per chi rimane da solo, come già fatto in altre esperienze europee (lasciando perdere le Unioni di comuni). L’altra è tagliare la grande zona grigia della spesa pubblica che avrebbe dovuto essere sforbiciata già nella finanziaria 2010 e ancora nei decreti di Monti. Sono 7.800 società ed enti strumentali, gestiti da nominati della politica, dove non c’è alcuna trasparenza o controllo sulla qualità né sul costo dei servizi, l’8% in più rispetto all’anno precedente, per lo più con bilanci in rosso, con un esercito di 300mila addetti e oltre 19 mila componenti dei Consigli di Amministrazione, per un costo complessivo di solo personale di 15 miliardi di euro. Si tratta di: Comprensori, Circondari, Unioni di Comuni, Consorzi di bonifica, Comunità montane, Aree di sviluppo industriale (ASI), Parchi naturali, Ambiti territoriali ottimali (ATO – per la gestione acque, energia, rifiuti), Sistemi economici locali (SEL), Distretti scolastici, Società della salute (associazioni fra Comuni e ASL per l’ottimizzazione socio-sanitaria)…
Rafforzare, non abolire. Un’altra scelta quindi è possibile: le province andrebbero rafforzate, portando all’interno di queste istituzioni tutto quanto oggi è esterno, ridondante, in sovrapposizione: soprattutto enti e uffici. Questo semplificherebbe davvero e farebbe risparmiare.
Concludendo. “Dal 1951, quando ci sono state le prime elezioni delle province (elezioni dirette), fino ad oggi, possiamo dire che le politiche ambientali, la programmazione economica, le politiche territoriali, le politiche per il lavoro e le politiche per l’istruzione sono nate in provincia. La storia della provincia e di molti amministratori è una storia gloriosa.” secondo Umberto D’Ottavio. Infatti: “Solo una democrazia pluralista, partecipata, inclusiva, dove il potere è contendibile, diffuso, rappresentato da poteri diversi che si controllano e si equilibrano a vicenda, può far prevalere interessi molto generali e dispersi, e bloccare i tentativi di privilegiati di intercettare le risorse destinate alla produzione di beni pubblici o di distorcere le regole”. [Fabrizio Barca]
[Pubblicato il 7.12.2013, aggiornato il 20.12.2013]