[vc_row][vc_column][vc_column_text]Oggi a Napoli si incontreranno alcuni amici e interlocutori europei, il movimento Diem 25 lanciato due anni fa da Yanis Varoufakis, la nuova formazione di Benoit Hamon Géneration‑s, il movimento della sinistra polacca Razem e molti altri. E parteciperemo anche noi, come osservatori, accanto ai Verdi europei e alla GUE.
Al centro delle nostre discussioni con gli interlocutori europei, da qualche anno, c’è la consapevolezza che serva una convergenza ampia delle forze di sinistra ed ecologiste attorno ad una visione comune del futuro delle nostre società, a partire da battaglie molto concrete da portare avanti insieme. Proprio per questo abbiamo creato al Parlamento europeo il Progressive caucus, che riunisce parlamentari europei di diversi paesi, partiti e famiglie politiche attorno a obiettivi e priorità comuni (raccolti nel nostro “Missing scenario”, una risposta decisa alle timide proposte della Commissione sul futuro europeo).
I partiti della destra nazionalista stanno utilizzando la stessa retorica di odio, chiusura ed intolleranza in diversi contesti nazionali, rafforzandosi a vicenda. Pur essendo una retorica che, portata alle estreme conseguenze, li metterebbe gli uni contro gli altri, il loro messaggio si irrobustisce attraverso i confini: Trump rafforza Le Pen, che rafforza Orban che rafforza Salvini. Si muovono, per citare proprio Diem25, come un’“Internazionale nazionalista”.
E dov’è la sinistra? Dobbiamo riuscire a comunicare che abbiamo una visione comune del futuro delle nostre società, a partire dalle battaglie che già portiamo avanti nei nostri Paesi, ma che possiamo meglio combattere solo ad un livello che superi i confini nazionali. Tutte le grandi sfide su cui si gioca il nostro futuro sono ormai europee e globali, e non possono più trovare piena soluzione a livello nazionale: vale per le grandi migrazioni, per la lotta contro povertà e diseguaglianze, per i cambiamenti climatici, così come per la giustizia fiscale e per la politica estera.
Sulle migrazioni è particolarmente evidente: da anni 6 Stati membri su 28 affrontano da soli l’80% delle richieste d’asilo presentate in UE. Dove sono la solidarietà ed equa condivisione delle responsabilità che chiedono i Trattati? Mentre i governi europei trovano accordo solo sull’esternalizzazione delle frontiere, il Parlamento europeo ha già chiesto a più riprese e con solide maggioranze le risposte comuni che servono. Vie legali e sicure per l’accesso a tutti i paesi UE, missioni europee di ricerca e soccorso in mare, e soprattutto un’ambiziosa riforma di Dublino che cancelli il criterio ipocrita del primo paese d’accesso sostituendolo con un meccanismo di ricollocamento che valorizzi i legami delle persone e condivida equamente le responsabilità sull’accoglienza tra tutti i Paesi. I numeri non sono certo quelli di un’invasione (1,3 mln di richieste nel 2016, parliamo delle 0,25% della popolazione europea), e come ogni sforzo se condiviso per 28 non solo è sostenibile per tutti ma in grado di portare mutui benefici.
Serve una svolta radicale sulle politiche economiche e sociali, che rincorrendo il cieco dogma dell’austerità hanno prodotto recessione su recessione: chiedevamo un New Deal per l’Europa, anche Diem25 rilancia con un Green New Deal, con investimenti sulla riconversione ecologica dell’economia, che porti occupazione di qualità e in quantità, così come sulla ricerca, l’innovazione, la conoscenza. Va costruita la dimensione sociale dell’Unione: serve una risposta europea immediata, e già in grave ritardo, a povertà e diseguaglianze.
Vale lo stesso per il cambiamento climatico: soprattutto nel momento in cui grandi attori internazionali si tirano indietro rispetto agli impegni presi, l’Unione europea deve farsi guida nell’attuazione degli accordi di Parigi e dei nuovi obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, puntando ancora più in alto sul passaggio alle rinnovabili, l’efficientamento energetico, la riduzione dei consumi e delle emissioni. E’ la più grande responsabilità che abbiamo verso chi verrà dopo di noi.
Sulla politica estera vale la pena ricordare una cinica battuta che veniva attribuita da alcuni a Kissinger: “Per parlare con l’Europa non ho ancora capito a chi devo telefonare”. Pur essendoci una figura, quella dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune, le cancellerie europee sono ancora molto gelose delle proprie competenze sulla politica estera. Il risultato? Che mentre assistiamo al formarsi di assi geopolitici impensabili fino a un paio di anni fa, noi abbiamo ancora 28 voci diverse e spesso in contrasto tra loro, rischiando di condannarci all’irrilevanza. Servirebbe maggiore coordinamento, e tirare ad avere una voce sola, forte e coerente in grado di fare la differenza sullo scenario geopolitico mondiale.
Anche la lotta all’evasione e l’elusione fiscale delle multinazionali deve farsi a livello europeo e globale. Un’Unione basata sulla concorrenza fiscale spietata tra i suoi Paesi è del tutto insostenibile. Abbiamo sistemi fiscali così diversi che una multinazionale può facilmente approfittarsi dei gap e scegliersi à la carte agevolazioni ed esenzioni fiscali promesse dai singoli governi. Una scellerata corsa a ribasso che ci vede tutti perdenti, come è reso evidente da aliquote che gridano vendetta, tipo lo 0,005% concesso dall’Irlanda a Apple. I vincenti sono solo loro: quelli che le tasse non le pagano. E quando ci dicono che le risorse non ci sono ricordiamo loro che evasione ed elusione secondo le stime ci costano fino a 1000 mld di euro all’anno. Ci si pagavano tre piani Juncker di investimenti, con quella cifra. Se solo ci fosse la volontà politica, anziché la schizofrenia dei governi che si fregano a vicenda pensando di essere più furbi, si potrebbero adottare da domani strumenti di armonizzazione fiscale e trasparenza stringenti: scambio automatico di informazioni, la rendicontazione Stato per Stato obbligatoria e pubblica affinché le multinazionali ci dicano quanti profitti fanno e quante tasse pagano in ogni stato dove operano, così come la famosa direttiva sulla base imponibile consolidata comune (CCCTB), bloccata da anni al Consiglio, per stabilire un principio molto semplice: le tasse si pagano dove si fanno i profitti.
Il filo conduttore di queste grandi sfide comuni ci porta a quella che le raccoglie tutte: la piena democratizzazione dell’impianto europeo. Molte di queste soluzioni comuni europee, infatti, potrebbero essere adottate domattina, se solo ci fosse la volontà politica di farlo. Ma finora sono state impedite dagli egoismi nazionali che prevalgono al Consiglio e dai grandi interessi (anzitutto economici) che in quest’Unione, ostaggio delle logiche intergovernative, l’hanno avuta vinta.
Non crediamo alla retorica sui grigi burocrati che decidono a Bruxelles sulle nostre teste. Rassegnarsi a quest’idea è assolutamente funzionale a chi vuole che le cose restino come stanno, andando dritti verso la disgregazione. La verità è che tutte le scelte, anche quelle che ci vengono vendute come tecniche, sono profondamente politiche ed hanno dei precisi responsabili politici. E per questo dobbiamo pretendere scelte diverse, che diano la svolta che serve.
Il progetto europeo così non è in grado di funzionare, e non abbiamo bisogno di nessun euroscettico che ce lo spieghi. Che sia lontanissimo dal disegno tracciato nel Manifesto di Ventotene, sventolato a sproposito anche da chi evidentemente non l’ha letto, è chiaro a tutti. Il progetto è rimasto incagliato a metà, nella mancanza di coraggio di mettere in comune competenze e soluzioni su temi cruciali, di fare l’Unione davvero.
Il tutto accompagnato da una progressiva e pericolosa tendenza al ridimensionamento del ruolo dei parlamenti, europeo e nazionali. L’abbiamo visto con il Fiscal Compact e le risposte alla crisi assunti in una cornice puramente intergovernativa, in un contesto istituzionale privo di legittimazione e controllo democratici. L’abbiamo visto con l’assenza di strumenti democratici di governance economica e politica della moneta unica, che così zoppica. L’abbiamo visto con il nefasto accordo UE-Turchia, che quando si sono accorti che secondo i Trattati andava portato davanti al Parlamento, per evitarlo hanno deciso di cambiargli nome e natura giuridica. L’abbiamo visto con il dirottamento dei fondi europei per la cooperazione allo sviluppo su obiettivi di controllo delle frontiere in Africa, tramite creativi strumenti finanziari che ci impediscono di svolgere il nostro ruolo di scrutinio democratico.
La risposta non è quindi, in un mondo così interconnesso, rinunciare allo spazio europeo, ma riempirlo di democrazia. Ed è questa la sfida più difficile e avvincente, che le raccoglie tutte. Che nel lungo termine vorrà dire anche, necessariamente, rivedere i Trattati, e superare l’unanimità in alcuni settori chiave.
Ma sia chiaro: per fare tutto questo, la nostra azione politica e istituzionale non basterà, soprattutto all’interno di istituzioni giovani e fragili come il Parlamento europeo. Serve una grande mobilitazione popolare che l’accompagni, che spinga in questa direzione, e servono soprattutto partiti più europei, corpi intermedi più europei, una stampa più europea, un dibattito e piazze più europee, che sfidino quegli egoismi nazionali e quegli interessi allo stesso livello. Piazze come quelle che abbiamo visto in tante città d’Europa contro il TTIP o per affiancare le donne polacche in una battaglia contro leggi medievali che ne calpestavano i diritti. Esempi di battaglie che sono diventate davvero europee, rendendo quelle istanze straordinariamente più forti.
Anche per questo saremo oggi a Napoli coi nostri amici e colleghi europei, a riflettere su come muovere i nostri passi in questa direzione per dare corpo e forza a queste battaglie comuni, anche in vista dell’importante appuntamento delle europee dell’anno prossimo. Seguiteci, dateci una mano.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]