di Francesco Tortorella, Europa Possibile
Lunedì 29 gennaio si è tenuto a Roma, nell’aula del Senato, il vertice “Italia-Africa. Un ponte per una crescita comune”, per la prima volta “elevato a rango di Vertice di Capi di Stato e di Governo” come ha sottolineato Meloni. A chi e a cosa è servito?
Hanno partecipato 15 capi di Stato, 8 capi di governo, 11 ministri degli Esteri, più le più alte cariche di UE, ONU e Unione Africana. Come avvio della presidenza italiana del G7, è certamente servito a dare visibilità all’Italia e al suo governo.
Oltre ai rappresentanti istituzionali, in aula c’erano rappresentanti di istituzioni finanziarie, dirigenti di grandi aziende (Eni, Enel, Webuild, Acea, Snam, ecc.), rappresentanti di categoria, portaborse. Ma nessun rappresentante della società civile italiana impegnata nella cooperazione allo sviluppo con le organizzazioni dei Paesi africani. Eppure, avevano chiesto di partecipare. Eppure, c’erano banchi vuoti. Perché?
La presidente Meloni dice che “non è di carità che ha bisogno l’Africa”, ma parla di ‘aiutare’ le Nazioni africane. Dice che bisogna “smontare una narrazione distorta che vede l’Africa povera e bisognosa”, ma parla lungamente di portare in Africa il nostro know-how in cambio di energia e riduzione delle migrazioni. Dov’è finita la competenza degli africani?
Eppure, 79 ONG africane avevano scritto al governo italiano manifestando i loro dubbi sulla sua strategia e presentando proposte: la competenza c’è, eccome. Se crediamo che ne abbiano, in uno scambio paritario chiederemmo di condividerla. Se non la citiamo nemmeno, è perché culturalmente crediamo che le conoscenze le abbiamo noi, non loro. Un colonialismo culturale espresso dal fatto stesso di organizzare un vertice fra un Paese europeo ed un intero continente: 1 vale 54.
Ciò che potrebbe rendere le relazioni Italia-Africa e il Piano Mattei efficaci, manca: le competenze e le relazioni della società civile italiana impegnata nella cooperazione, il riconoscimento della ricchezza di competenze delle popolazioni africane, e la loro partecipazione all’elaborazione di un Piano che li riguarda. Ciò che viene presentato è invece un Piano per le relazioni Italia-Africa senza partecipazione della società civile e senza le idee degli africani.
“Abbiamo così deciso di avviare un ambizioso programma”, “abbiamo scelto cinque grandi priorità di intervento”, “abbiamo individuato, per iniziare, alcune Nazioni africane”, “puntiamo a replicare i modelli di successo in tutti i Paesi africani che saranno interessati”. Insomma: abbiamo deciso noi per voi — parole di Meloni — questo è il modello culturale. Come ha risposto il presidente della commissione dell’Unione Africana Faki Mahamat, l’UA «avrebbe preferito essere consultata prima» dell’incontro. Il solito, vecchio, colonialismo europeo: tanto banale quanto imbarazzante.
L’assenza della società civile si spiega bene attraverso le parole di Meloni: “Noi siamo sempre stati convinti che l’Italia abbia tutte le carte in regola per diventare l’hub naturale di approvvigionamento energetico per l’intera Europa”. Se questo è l’obiettivo del Piano, si capisce che la società civile non serva; anzi, sia di disturbo. E si capisce, invece, a chi serva il Piano.
Il governo preferisce mantenere viva nell’immaginario collettivo l’idea leghista che le ONG italiane siano organizzazioni di ausiliari dei trafficanti di esseri umani, impegnate a mettere in pericolo le frontiere italiane trasportandovi pericolosi terroristi. Un nemico immaginario necessario a mantenere un consenso basato sulla paura. Riconoscere e coinvolgere la società civile italiana e quelle africane sarebbe contraddittorio rispetto a questa narrazione, ma è l’unico modo per dare vita a una vera ed efficace cooperazione.