Per non ridurre sempre tutto a un problema di comunicazione
Credo, a differenza di quanto sostenuto dall’ex Premier nella recente intervista a Ezio Mauro, che il 4 dicembre le italiane e gli italiani abbiano votato nel merito. Magari non solo nel merito della riforma costituzionale, alla quale, però – posso assicurare per testimonianza diretta – davvero moltissime persone si erano interessate per cercare di comprendere quale sarebbe stato il loro destino in caso di vittoria del Sì o del No. Il voto popolare ha certamente coinvolto anche il merito di molte altre scelte: dalla riforma della scuola (che neppure il Governo uscente rivendicava più come “buona”, tanto che l’unica a sparire dalla nuova compagine governativa è stata proprio la ministra Giannini) al jobs act, dalle scelte energetiche molto fossili alla difesa dei conflitti di interessi e dei privilegi parlamentari (con il blocco in una sola Camera, attraverso il rinvio in commissione, delle proposte volte a incidere proprio su queste due questioni). E certamente, più in generale, è stata percepita la solita politica che ha fatto scelte di difesa di chi è sempre stato difeso (come le banche), continuando a dimenticare chi è sempre stato dimenticato. Ecco, incontrando le persone, nei dibattiti sulla riforma costituzionale, anche il merito di queste altre questioni emergeva.
Crediamo sia sbagliato banalizzare l’esito del referendum del 4 dicembre riducendolo a un problema di “comunicazione”, come l’ex Premier afferma nella sua ultima intervista, in cui si dice dispiaciuto di “non essere riuscito a far capire quanto fosse importante per l’Italia questa riforma”. Ci sembra, invece, che all’interno di una serie di “riforme” che hanno avuto come filo conduttore la “chiusura”, la salvaguardia delle posizioni, quella della Costituzione sia stata correttamente individuata come la riforma pilota: con questa (soprattutto unita ad altre connesse: da quella sugli enti locali a quella elettorale) si cercava di diminuire la possibilità degli elettori di incidere sull’indirizzo politico, sulla scelta dei loro rappresentanti, promettendo strumenti di partecipazione congegnati in modo da poter rimanere sulla carta, cercando di ovattare qualunque conflitto tra posizioni politiche diverse.
Ora, questa eventualità è stata fortunatamente scongiurata da un sonoro No pronunciato da oltre diciannove milioni di italiani, pari a quasi il 60% dei voti validi nel referendum del 4 dicembre, ma i protagonisti della stagione politica in corso (che è esattamente la stessa che ha fatto le scelte bocciate poco più di un mese fa, con qualche apprezzabile differenza dei toni del nuovo Premier) sembrano non avere colto la dimensione di quel voto, esattamente come non fu colta la portata del voto del febbraio 2013, che inequivocabilmente indicava il rifiuto di quella logica delle “larghe intese” che aveva retto nell’ultimo anno e mezzo il Paese. Eppure quello schema è stato riproposto ben due volte, da un certo punto con una parvenza più “nuova” ma sostanzialmente altrettanto conservatrice e purtroppo spesso rivelatasi meno efficace nella soluzione dei problemi (mettendo in campo una quantità di riforme – più o meno condivisibili – realizzate male e quindi incapaci di produrre risultati, bocciate dalla Corte o bocciate dagli elettori), facendo girare tutto molto velocemente ma non di rado a vuoto.
Questa scarsa considerazione del voto del 4 dicembre sembra già visibile nelle prime dichiarazioni sulla legge elettorale, ancora una volta improntate a una grande approssimazione che accosta Mattarellum e premio di maggioranza, doppio turno di collegio e ballottaggio nazionale, collegi uninominali e liste bloccate, senza una chiara idea di come ricostruire la rappresentanza e la partecipazione.
Al contrario, sarebbe necessario ripartire proprio dal fatto che il 4 dicembre, di fronte a una domanda che evidentemente interessava gli elettori, questi sono andati a votare in un numero inatteso e superiore a quello ormai solito nelle elezioni. Perché? Forse perché l’offerta politica delle ultime elezioni non era interessante? Forse perché non c’è più interesse per votare soltanto una faccia – o qualche faccia – e si vorrebbe sapere per fare cosa?
Nello scrivere la legge elettorale si dovrebbe tenere presente la grande voglia di partecipare, di poter decidere, dimostrata il 4 dicembre e non disperdersi in alchimie con “premi a scendere” e coalizioni forzate da soglie differenziate per chi va da solo e chi si allea, pensate più che altro per evitare la vittoria o l’affermazione di qualcuno. Anche ricordando che da quando si concepiscono leggi elettorali “contro”, queste risultano affette da incostituzionalità. Il periodo, così a ridosso delle elezioni, non è troppo favorevole per l’approvazione di una legge elettorale, tanto che il codice di buona condotta elettorale del Consiglio d’Europa escluderebbe l’approvazione della legge elettorale nell’anno antecedente alle elezioni, perché si può essere troppo condizionati dal proprio immediato tornaconto, ma a questo siamo costretti dalla irresponsabile approvazione dell’Italicum, su cui il governo appose addirittura la fiducia, concepito per l’elezione di una sola Camera delle due elettive (puntando sull’azzardo di un voto a favore della eliminazione del suffragio universale diretto per il Senato). L’ultimo atto di un Parlamento figlio di una legge elettorale incostituzionale e che ne ha prodotta mezza (cioè una per la scelta dei soli deputati) su cui gravano dubbi di incostituzionalità che presto saranno sciolti dalla Corte potrebbe essere – finalmente – la approvazione di una legge elettorale in cui la determinazione della maggioranza dipenda dai voti ottenuti e non da mere clausole di legge (come con il Porcellum e l’Italicum o qualunque sistema “a premi”).