Come un maestro impressionista della rive gauche, ai margini di una seduta senatoriale il pittore di concetti Corradino Mineo sceglie i vocaboli e inquadra con pochi, efficaci tratti logici i motivi del proprio sostegno al documento di Giuseppe Civati per il congresso nazionale del PD. «E’ il solo candidato che coniuga politica e identità. Civati è l’unico che parli di come siamo passati dal governo di cambiamento alle larghe intese. Se la politica è farsi un’idea del percorso sbagliato per rimediare, mentre l’identità è il riferimento ai valori condivisi, indispensabili per costruire una forza di sinistra, allora Cuperlo rappresenta l’identità senza la politica, offre una prospettiva “nobile” all’apparato del partito, che ha sbagliato ma senza spiegare perché abbia sbagliato, ora si vuole recuperare. Renzi invece porta con sé un’idea forte della politica ‑idee abbastanza chiare sugli errori commessi e almeno la volontà di rimediare- ma è privo di un’identità, anzi, in qualche modo la teme. E qui è il suo limite, perché la sinistra ha bisogno di ritrovarsi, di sentirsi sinistra. Sì, certo, la sinistra vuole vincere ma vuole anche sentirsi nel giusto. Pittella si è candidato per portare all’attenzione alcuni temi importanti – lo dice, lui si sente prima di tutto un socialdemocratico europeo — ma, a me pare, senza una visione generale. Civati ha fatto uno sforzo diverso e plurale: ha puntato sulla politica e sui valori, stando a sentire la società, che è più avanti della politica, e ha riproposto tutto questo in una mozione che è un patrimonio collettivo. Si è detto: una mozione troppo lunga. Ma nelle prime pagine c’è già tutto, poi la mozione declina una ricchezza plurale. Apprezzo questo sforzo: solo Civati non si propone come un uomo solo al comando».
Una vita nell’informazione, con esperienze anche all’estero: l’impegno diretto in politica, lo scorso inverno, è stato «una scelta personale. Avevo fatto tutto quel che potevo, completato il cursus honorum del giornalista, da capo della cronaca politica di “Telekabul”, al lavoro del corrispondente da Parigi e New York, ai sei anni di direzione di Rainews24. Non potevo più rimanere là: ero sentito come un’anomalia, perché quel giornalismo critico appariva ai manager messi a dirigere la Rai come poco professionale, la redazione mi aveva sempre appoggiato, ma sapevo di dovere “liberarla”. E ho deciso di dare una mano. Bersani con la sua proposta di rifondare il PD partendo dalle primarie che lo contrapposero a Renzi, mi aveva aperto il cuore. Mi sono detto: anch’io che vengo da un’altra storia, così lontana del PCI e dalla DC, anch’io che avevo trovato sterile e freddo quel tentativo di fusione tra le due tradizioni della prima Repubblica, ora posso dare una mano. E quando Bersani mi ha proposto la candidatura in Sicilia, dove, quarant’anni prima avevo parlato di lotta alla mafia come lotta di classe, contro una borghesia intermediaria e parassitaria, essenzialmente mafiosa, ho detto: sì». Mineo non è pentito di averlo fatto, ma riconosce «di aver sbagliato valutazione: per questo motivo spenderò le mie energie, per far entrare aria nuova. Bersani è una persona per bene, provo simpatia e solidarietà per lui, ma il “cambiamento” non può esaurirsi in alcuni provvedimenti di governo. Cambiamento è scegliere un uomo che rappresenta la nazione, come Presidente, e quest’uomo non poteva essere un onesto sindacalista cattolico iscritto al PD e su cui convergeva l’interesse di Berlusconi. Secondo me Bersani è rimasto imprigionato nella stessa cultura di Napolitano, quella che crede che le istituzioni siano eternamente stabili e che infondano la loro grazia anche su chi le insulta e le delegittima, come Berlusconi. Un disastro. Il capo dell’istituzione più vecchia e millenarista, il capo della Chiesa cattolica, sa che non è così e la sta scuotendo dalle fondamenta, il segretario del Partito Democratico si è arrestato davanti alla soglia del Colle e ha lasciato condurre la danza proprio all’avversario che aveva preteso di smacchiare».
Che pensa l’ex direttore dell’informazione in Italia? «Il mondo dei media paga le debolezze croniche della borghesia italiana. Penso ai travagli della proprietà del Corriere, il salotto buono che poi non era tanto buono visto che ci stavano bene i Ligresti. Il sistema televisivo è dominato dal conflitto d’interessi, con una Rai che da troppo tempo scimmiotta Mediaset, abbassando il livello culturale dei prodotti, annullando ogni innovazione e sacrificando le risorse che pure ha al suo interno. Purtroppo la sinistra è colpevole: ha badato a farsi baciare la pantofola piuttosto che a riformare il sistema e a pretendere regole liberali contro i monopoli e le personalità in patente conflitto d’interessi».
Si legge spesso che il PD non sa comunicare. «Il problema è cosa si comunica, non come si comunica. Il PD dovrebbe chiedersi: noi cosa vogliamo dire? In campagna elettorale Bersani continuava a promettere di “smacchiare il giaguaro”, ma taceva su Monti che, candidandosi, è come se avesse detto ai nostri elettori : il mio non è stato un governo tecnico, voi, poveri illusi, dovrete accettare la filosofia della Fornero e quella dell’Unione Europea che ci chiede sempre nuovo sacrifici. Bersani non comunicava per tenersi le mani libere dopo il voto, per potersi alleare con il centro. L’errore è stato politico, non di comunicazione. Ci si poteva pure alleare con Monti, ma solo dopo uno scontro politico e un chiarimento. Quando Epifani, oggi, dice “che vergogna, fermiamo il tesseramento”, rischia di non convincere: perché dovrebbe piuttosto spiegare perché, secondo lui, il tesseramento è finito in questo modo. Il partito è marcio, il congresso è arrivato troppo tardi, c’è un conflitto tra il PD dei notabili e il PD più liquido degli iscritti e dei votanti alle primarie? Epifani minimizza e non convince».
Da parlamentare di prima nomina, come sono questi colleghi giovani, neofiti al suo pari? «Questo Parlamento, dal punto di vista della qualità umana, è forse persino migliore dei precedenti. I partiti hanno avuto vergogna, e hanno selezionato ‑nei limiti del possibile- anche intelligenze e persone per bene. Ma le loro possibilità sono inespresse, perché il governo delle larghe intese ha espropriato il Parlamento delle funzioni che gli sarebbero proprie. Le leggi le fa il governo, noi approviamo, in condizioni di presunte necessità e di urgenza i decreti del Governo. In Parlamento non si fa politica, tendono a trasformarci in funzionari dello Stato. Anche con aspetti ridicoli. Per esempio, un intervento appassionato in aula non sarebbe “senatoriale”. La politica, espropriata dalle larghe intese, si sposta altrove, in un luogo dove un governo debole media con altri poteri. Credo che sia tempo di uscire da questo stato di d’eccezione. Restituire al Parlamento il compito di discutere e di indicare direttive di massima (le leggi) che poi tocca all’esecutivo, al Governo e all’amministrazione, dar diventare operative».
Certo, magari senza i 101 sarebbe stato diverso… «Nessuno dei 101 è mai uscito allo scoperto con me. E’ un segreto ben mantenuto, sì, ma è un segreto di Pulcinella: i centouno erano quelli più vicini al gruppo dirigente del PD, quelli che sapevano che il nome di Prodi non era condiviso da alcuni capi corrente, quelli che volevano che si andasse al governo con Berlusconi, ritenendolo il male minore rispetto a Grillo». E quindi, Civati. «Se immagino la rinascita del PD, di cui c’è bisogno perché è il luogo della politica di sinistra in Italia, immagino a un partito che rigetta definitivamente l’inciucio, abbraccia la trasparenza, accetta la rivoluzione copernicana nei rapporti tra Stato e partito proposta da Fabrizio Barca, dunque alla mozione e al partito di Pippo Civati».
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